Si avvicina l’uscita (per la PEM Records, il 24 gennaio) del nuovo album “La parole” di Vincenzo Ramaglia, un progetto interamente concepito per voce ed elettronica senza l’uso del computer, con lo straordinario supporto vocale di Laure Le Prunenec (cantante che attraversa con disinvoltura molteplici generi – dal metal più sfrenato alla lirica – in numerosi e noti progetti musicali di matrice elettronica, tra cui Igorrr, gruppo francese d’avanguardia che da diversi anni ormai sta facendo il sold out per tutto il pianeta).
Compositore attivo nella sperimentazione musicale contemporanea e in quella che lui chiama PEM (“Popular Experimental Music“), Vincenzo Ramaglia, prima di abbracciare la musica elettronica, ne ha fatte di tutti i colori: ha studiato pianoforte, si è aggiudicato il TIM (Tournoi International de Musique) con un brano orchestrale alla fine dei suoi studi di Composizione in conservatorio, è diventato Direttore di una delle più note scuole di cinema italiane, l’Accademia di Cinema e Televisione Griffith di Roma, ha firmato colonne sonore da Nastro d’Argento come quella di “Ore 2: calma piatta” (pellicola pluripremiata, interpretata da John Turturro, prodotta da Mikado Film) e ha pubblicato con Dino Audino Editore un testo di riferimento sul linguaggio audiovisivo (“Il suono e l’immagine”).
Ma è per i suoi album sperimentali che le principali riviste web e cartacee della scena musicale italiana (Ondarock, Rockerilla, Blow Up, Sentireascoltare, Rumore, ecc.) hanno mostrato un grande apprezzamento: da “Formaldeide” del 2007 a “Chimera” del 2008, da “PVC smoking” del 2011 ad “Atomic City” del 2019 (quest’ultimo – la sua svolta elettronica più netta – pubblicato dalla Dark Companion Records, il cui catalogo include artisti come Lino Capra Vaccina, North Sea Radio Orchestra, John Greaves, Paul Roland, Markus Stockhausen, Keith Tippett, Paolo Tofani e molti altri).
Col progetto “La parole”, ora sono i media internazionali a mostrare interesse, e prima ancora che l’album sia uscito.
S.C.: Tra le cose che mi hanno colpito maggiormente, a parte la tua innegabile capacità nel comporre qualcosa di molto articolato, c’è la voce di Laure Le Prunenec. Che voce! Non solo la voce di Laure è davvero stupenda ma il suo cantare inventando un linguaggio nuovo, prima inesistente, forse è l’evoluzione stessa del linguaggio. Mi puoi raccontare come siete arrivati a questo connubio?
V.R.: Laure è un’artista per cui nutro una grande stima. Ci siamo conosciuti “virtualmente” a giugno del 2016. Ho scoperto quasi per caso alcune sue performance su YouTube, in cui – in uno show di Igorrr – si scatenava su un palco col suo mix travolgente di tecniche vocali (dal “growl/scream” del metal alla lirica) e con la sua carismatica presenza scenica. Ne sono rimasto affascinato: le ho scritto subito. C’è sempre stata una particolare affinità tra noi, probabilmente perché siamo un po’ agli antipodi: lei – attraverso le sue performance – si dà tutta, con naturalezza e vitalità, a folle di fan; io con un background accademico, mi muovo nell’ombra, murato nel mio studio a sperimentare…

Ne è nata una singolare collaborazione a distanza, ma non per questo priva di un forte coinvolgimento emotivo (ora siamo amici, oltre che collaboratori). Pensa che ci siamo incontrati per la prima volta di persona a fine ottobre 2017, dopo più di un anno che ci scambiavamo messaggi e musica, a Calenzano (nei pressi di Firenze, una tappa italiana del lungo e glorioso Savage Tour di Igorrr).
Dopodiché, una volta tornata in Francia, le ho proposto un progetto per elettronica senza computer e voce, concepito proprio per lei: ne è stata entusiasta e ha aderito con passione.
Ora quel progetto è un album, e c’è nell’aria anche il live. L’ho intitolato “La parole“, proprio per sottolineare il paradosso del “linguaggio inventato” di Laure, linguaggio che mi ha ispirato moltissimo sin da subito, e che ha colpito anche te. Un linguaggio non costruito a tavolino, ma inventato in tempo reale, come pura urgenza comunicativa del momento, come parte integrante dell’improvvisazione vocale. Un linguaggio a cui ho l’impressione in qualche modo di contribuire in fase di editing audio, perché montare segmenti delle bellissime improvvisazioni vocali di Laure sulle mie tracce elettroniche, significa anche comporre frasi di una lingua nuova, sconosciuta.
S.C.: Sempre in merito all’album “La parole”, ho visto che nell’ultimo mese sono usciti due singoli (“La parole 7” e “La parole 5”) con relativi video, e hanno riscosso molto interesse, soprattutto all’estero… Cosa succede in questi nuovi video?
V.R.: In effetti – dopo che Son of Marketing, Vents Magazine e XS Noize hanno presentato in anteprima rispettivamente il singolo “La parole 7”, il video relativo e il singolo + video “La parole 5” – ho ricevuto due interviste (The Playground e Chill Music) e il progetto si è diffuso a macchia d’olio attraverso magazine, blog e radio (soprattutto Inghilterra e Stati Uniti, ma anche Francia, Messico, Australia e Sud Africa). La mia pagina Facebook si è trasformata in una lista infinita e noiosa (tuttavia ancora parziale) di ringraziamenti.
Considero speciali i videoclip di questi due singoli, perché stavolta Laure era in persona sul set (qui a Roma, nella mia Accademia) e di certo non si è limitata solo a cantare. Ho diretto e montato io stesso entrambi i video, realizzati da una troupe della mia Accademia.
Il videoclip per “La parole 7” – nell’atmosfera intima, quasi liturgica di un set di candele e panneggi neri – ritrae Laure in una performance molto ispirata che va persino oltre il canto, libera dal sincronismo tra labiale e testo melodico, attraverso gesti, palpiti, danze di grande impatto emotivo. Nel montaggio, ho cercato di seguire passo passo gli umori della musica e della performance.
Nel videoclip per “La parole 5” non solo Laure torna a cantare nella sua performance, ma si vedono anche le mie mani muoversi frenetiche sul setup. Insomma, come a documentare una vera e propria performance a due. Tuttavia, non si tratta solo di questo: ho montato le mutevoli espressioni facciali e gestuali di Laure in modo incalzante, quasi ci fossero molti personaggi, molte anime, molte cantanti, molti sentimenti contrastanti dentro di lei… Anche per questo motivo, la fotografia è duplice: alterna il calore del giallo con il freddo del blu; mentre pure la musica alterna i suoi stati d’animo conflittuali, in un crescendo inesorabile tra elettronica e voci (questa è l’unica traccia polifonica dell’album).
S.C.: Ho visto che hai un setup dawless, una scelta che molti utilizzano ultimamente. Nel tuo caso, vuoi spiegarci il perché?
V.R.: Da una parte la nausea nei confronti del monitor (davanti al quale passo molto tempo per lavoro) e il desiderio di comporre/performare a computer spento. Dall’altra la specifica creatività che nasce dal superamento dei limiti (imposti dall’assenza di una DAW). Infine la peculiare manualità/fisicità che si sviluppa rapportandosi a un setup senza computer.
Quello che faccio col mio attuale setup (di “Atomic City” e “La parole“, per l’appunto) è una sorta di “real time breakcore”: cioè produco in tempo reale durante la performance (e in modo sempre diverso da performance a performance) – con le mie mani sulle macchine come fossero un vero e proprio strumento musicale – almeno una parte di quelle sofisticate frammentazioni ritmiche che di solito si costruiscono in giorni e giorni di editing al computer. Il tutto lasciando talvolta anche spazio a momenti più rarefatti e suadenti, quasi ambient, dove la ritmica si dissolve.
Questo modus operandi produce in me il desiderio di interagire con musicisti – come Renato Ciunfrini (clarinetto di “Atomic City“) e Laure Le Prunenec appunto (voce de “La parole“) – che condividono lo stesso desiderio sia di sperimentare (attraverso le tecniche più svariate e ardite) che di performare in tempo reale, liberi da vincolanti sovrastrutture.
Naturalmente, in tutto ciò, non viene meno la mia natura (imprescindibile) di compositore.

Ciò che frammento ritmicamente in tempo reale è una polifonia complessa e politritmica di ben 10 linee di synth (4 dell’Elektron Analog Four + 1 del Moog Minitaur + 4 del DSI Tetra + 1 di del Dreadbox Erebus) e 6 linee percussive (Nord Drum 2). Al tutto si aggiungono eventuali campioni (nel caso di “Atomic City” non ho utilizzato alcun campione; nel caso de “La parole” ci sono anche campioni vocali).
Edificare un’impalcatura così stratificata di sequenze trattate individualmente richiede un lavoro compositivo preliminare, quasi un contrappunto orchestrale.
S.C.: Ma il risultato di tutto ciò a cosa somiglia? Quali sono le tue fonti di ispirazione?
V.R.: Senz’altro le ritmiche più inquiete e inafferrabili dell’IDM, ma faccio fatica a rispecchiarmi in un genere specifico (spero qualcuno riesca a farlo meglio di me, ascoltando la mia musica).
Probabilmente ne “La parole” ci sono echi di Autechre, Björk, Arvo Pärt, Radiohead, Sigur Rós, Portishead. Se non di Squarepusher, Venetian Snares, Alva Noto…
Inoltre, grazie al linguaggio utilizzato da Laure e al suo campionario di tecniche vocali, il suono si fa riflessione sulla parola, puro e cangiante afflato comunicativo (nel gesto come nel canto), rasentando un incrocio impossibile tra Aphex Twin e Diamanda Galás.
S.C.: Quando hai capito di aver trovato i giusti strumenti per esprimerti?
V.R.: Da quando ho deciso di allestire un setup elettronico, ci ho messo anni a ultimarlo e a chiarire dentro di me l’uso che volevo farne, le sonorità che volevo ottenere, le connessioni più funzionali al risultato, la manualità a cui volevo “addomesticarlo”. Synth Cafè ne è testimone, perché ho chiesto aiuto al gruppo con diversi post nel corso degli anni e ho attinto a piene mani dall’esperienza messa generosamente a disposizione da numerosi membri (persino dall’amministratore: la ciabatta che attiva il setup è la stessa che usi tu e che mi hai consigliato… ahahah!).
S.C.: Hai uno strumento preferito nel tuo setup?
V.R.: È difficile individuarlo in un setup costruito nel tempo attraverso una selezione lunga e certosina (che ha comportato anche tanti acquisti sbagliati e tante sostituzioni durante il percorso): do un grande valore a ogni singolo componente. Quindi posso solo dire dove le mie mani tornano con più frequenza quando improvviso sull’elettronica.
Nel caso del mio ultimo album (“Atomic City”) e del mio album in arrivo (“La parole”), mi sono ritrovato ad armeggiare più spesso con gli effetti (Octatrack e RMX-1000) che con i synth. È come se fossi più interessato alla manipolazione e alla segmentazione dei suoni che ai suoni stessi…
S.C.: I tuoi attuali progetti sembrano avere un legame indissolubile con le immagini…
V.R.: Il legame che intuisci dipende probabilmente dal fatto che il rapporto tra suono e immagine, l’estetica dell’audiovisivo, come anche la didattica della musica applicata, sono i settori in cui da sempre è imperniata la mia attività di formatore. Era giocoforza che questa “deformazione professionale” si insinuasse anche nella mia vita prettamente musicale.
Già nel 2009, con un brano del mio album “PVC smoking” (poi pubblicato nel 2011), mi sono cimentato nella direzione di un video, coinvolgendo allievi e docenti della mia scuola di cinema (per riprese e montaggio) e alcuni breakdancer (per delle performance su una sorta di “partitura dance”). E’ stata un’esperienza molto divertente.
S.C.: Prima de “La parole 7” e “La parole 5” hai pubblicato altri video?
V.R.: Dopo più di 8 anni dal video di “PVC smoking“, per proporre a Laure “La parole 1”, le ho direttamente inviato non solo la traccia audio dell’elettronica ma anche il video (che ho realizzato autonomamente) delle mie mani che si muovevano sul setup, riprese dall’alto. Lei, in Francia, ha improvvisato con la sua voce sull’elettronica facendosi riprendere da Étienne Varin. È stato di grande ispirazione per me ricevere sia le sue tracce audio sia il video delle sue performance, così si sono messi in moto strani ingranaggi nella mia testa. Ho contattato, qui a Roma, l’antica Bottega di Calligrafia e l’ISSR – Istituto Statale per Sordi. Ho coinvolto un calligrafo (Marco Riccardi) e una “deaf performer” (Deborah Donadio). Grazie alla fotografia di Paolo Bravi (docente della mia Accademia) e ai miei allievi di cinema ne è uscito fuori un video sperimentale in cui una cantante inventa in tempo reale parole sconosciute, un calligrafo si cimenta con penna e calamaio in una traduzione impossibile di quelle parole in tre lingue diverse, e una ragazza sorda traduce tutto questo prima nella lingua dei segni, poi in una mimica libera.
S.C.: Poi c’è stato il video di “Atomic City 5”. Giusto?
V.R.: Sì. Con l’ultima traccia del mio album “Atomic City“, a settembre 2018, ho fatto un ulteriore passo. Ho deciso di entrare nel magico mondo DaVinci Resolve Studio e di occuparmi personalmente sia dell’editing video che della color correction: la direzione ventennale di un’accademia di cinema ha i suoi vantaggi, in termini di competenze carpite da un corpo docente di professionisti e personalità del settore audiovisivo. Anche in questo caso io (all’elettronica) e Renato (al clarinetto) abbiamo realizzato le nostre rispettive riprese autonomamente. Dopodiché mi sono ritrovato a fare non solo un editing audio ma anche un editing video delle improvvisazioni di Renato sulla mia elettronica. Per il video di “Atomic City 5”, oltre alle “auto-riprese” dei musicisti, ho utilizzato delle “vecchie” riprese on the road, effettuate personalmente nel 2013, durante un viaggio negli Stati Uniti: per la precisione, un lungo tratto di strada deserto (di quelli che più mi piacciono) in direzione di una ghost town dell’Idaho, Atomic City per l’appunto, che dà il titolo all’album. Un posto davvero irreale e affascinante, nella sua nuda solitudine, un non-luogo, dove c’è solo un piccolo bar tenuto tenacemente in vita da una coppia di signori con cappello da cowboy, in mezzo al nulla. Nel video di “Atomic City 5” ho rivissuto quella strada e il suo approdo metafisico, alternando ai musicisti immagini d’archivio di esplosioni nucleari sempre più incalzanti. Giocando (impunemente) con quelle immagini così drammatiche, col rapporto – estetico, ritmico – che instaurano con la musica, e con il malinteso generato dal nome di quella remota città fantasma, che si rivela solo alla fine del video.
Insomma: ci ho preso gusto a montare immagini sulla mia musica. E così mi sono occupato dell’editing video anche de “La parole 2”.
S.C.: Ecco, con “La parole 2” – e relativo video – com’è andata?
V.R.: Stesso metodo. Io che compongo a Roma sul mio setup e Laure che improvvisa in Francia sulla mia elettronica. Entrambi con riprese video. Le mie realizzate in autonomia. Quelle di Laure – stavolta – realizzate da una troupe, con la direzione di Aurélien Laidebeur, alle luci Étienne Varin e Clément Prié: giochi di oscurità e bagliori, chiaro e scuro, vedo non vedo. Un materiale davvero stimolante per me.
Dopo l’editing sia audio che video delle improvvisazioni di Laure, ho giocato ancora una volta con la fantasia. Ho scovato on-line la storia di un’antica bambola/automa in grado di scrivere, costruita nel Settecento e recentemente restaurata dalle mani sapienti di un orologiaio svizzero. Una storia che mi ha stregato e che ho voluto inserire nel video: l’ho trovata subito perfetta per il progetto “La parole”. Il lento processo di smontaggio e rimontaggio dei singoli pezzi della bambola/automa e dell’ingranaggio ingegnoso che le consente di scrivere, alternato alle immagini di Laure, acquista un sapore sempre più drammatico, quasi che Laure reagisse emotivamente allo smembramento e alla ricomposizione di un essere vivente.
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